Benvenuti
Buongiorno a tutti e bentornati su Mettiladap.arte in questo arieggiato lunedì.
Ma soprattutto, un benvenuto caloroso a tutti i nuovi arrivati!
A gennaio, nel primissimo numero di questa newsletter, iniziavo salutando, citando Manzoni, i 25 lettori iscritti. Oggi siamo in 120, e non potrei esserne più orgogliosa.
Approfitto dell’occasione per ringraziare
, mio professore universitario e autore della newsletter Sunday Jumper che vi consigliavo lo scorso lunedì, per la splendida recensione e per l’invito in NABA nelle sue due classi del biennio in Visual Design & Integrated Marketing Communication a parlare del mio percorso professionale e di come è nato questo progetto. E’ stato molto emozionante tornare in università dopo otto anni dalla laurea e dall’altro lato della cattedra.Per chi riceve questa newsletter per la prima volta, ci tengo a ricordare che questo progetto nasce con lo scopo di condividere l’arte e la bellezza con più persone possibile, per questo il tono di voce sarà sempre leggero e divulgativo. Quando scrivo penso sempre di rivolgermi a qualcuno che sente parlare per la prima volta dell’argomento di cui tratto, spero che anche i lettori più esperti possano trovare spunti di riflessione e di novità in questo spazio.
Premesse fatte. Cominciamo!
Visita guidata alla mostra di OBEY
Alt! Una cosa fondamentale. Ho creato un form per iscriversi alla prima data di visita alla mostra “OBEY - The Art of Shepard Fairey” alla Fabbrica del Vapore (se ti sei perso gli scorsi numeri, qui raccontavo della mia esperienza con questo artista). Se sei intenzionato a partecipare non dimenticare di lasciare i tuoi contatti e indicare la tua preferenza!
Un weekend a Rimini
Ok, ora partiamo per davvero.
Come in molte newsletter, lo spunto per parlare del tema di quest’oggi nasce da un’esperienza personale, in questo caso da un piacevole weekend sulla riviera romagnola. L’occasione della visita era la fiera Rimini Wellness, il paradiso per amanti del fitness e degli sport da palestra, l’evento ideale per il mio fidanzato, appassionato di CrossFit, ma un po’ meno per me, che reputo l’inserimento del pilates nella mia routine settimanale un grande successo dopo anni di tentativi fallimentari - per intenderci, quando a 5 anni mia mamma mi mostrò il “libro degli sport” sperando di suscitare in me un interesse verso qualche disciplina, io, tra tutti, indicai il bridge, gioco di carte che per qualche motivo è stato riconosciuto come sport olimpico -.
Pesce fuor d’acqua in una fiumana di gente tonicissima, mi sono imbattuta, in fiera e sui viali del lungomare periferico dove avevamo l’hotel, nella più alta concentrazione mai osservata di sederi “liftati” da leggins-perizoma, bicipiti esplosivi, tatuaggi mal realizzati, insegne luminose generate con WordArt e gadget da spiaggia cinesi con molti, troppi brillanti di plastica.
Sia chiaro, non voglio di certo suonare come Alain Elkann che si lamenta dei “giovani lanzichenecchi”, ma semplicemente indagare il mio stato d’animo in un contesto ricco di stimoli visivi che andavano in netto contrasto con la mia percezione del “bello”.
(Disclaimer: il mio fidanzato dice che sono esagerata, mia sorella dice che faccio dei discorsi da boomer, fatemi sapere il vostro punto di vista sulla questione.)
Quindi, ho osservato con sorpresa che ciò che vedevo mi repelleva e mi attraeva al contempo - e non sto parlando nè dei bicipiti nè dei sederi-. Di solito, di fronte a opere grafiche di dubbio gusto, mi arrabbio - è un sentimento comune di molti grafici, ma penso di molti professionisti di qualsiasi ambito posti di fronte a pressappochismo e cialtroneria -, invece, in quel viale affollato pieno di chincaglierie e di scelte “aggressive”, ero affascinata, incuriosita: sembrava esserci uno schema sotteso, una regola non detta che separava il regno del bello da un altro mondo parallelo, che ci provava a essere bello, ma non ce la faceva mai davvero fino in fondo. Ancora non ne distinguevo i confini, eppure alla fine ho compreso cosa mi stava capitando: avevo varcato l’ingresso del fatato e oscuro regno del Kitsch.

Il regno del Kitsch
“Il Kitsch è l’arte che segue delle regole stabilite, proprio in un’epoca in cui tutte le regole artisitiche sono messe in dubbio da ogni artista” - Harold Rosenberg, La tradizione del nuovo
Per aiutarci nell’orientamento in questo terreno ricco di insidie, ho finalmente acquistato un volume che desideravo da tempo: la nuova edizione di Bompiani del saggio più celebre del critico d’arte Gillo Dorfles, pubblicato per la prima volta nel 1968: “Il Kitsch, antologia del cattivo gusto”.
Per quanto riguarda la definizione ci aiuta Wikipedia: “Il sostantivo di origine tedesca Kitsch (scarto, probabilmente derivato dal termine dialettale bavarese kitschen, intrugliare) indica in maniera dispregiativa lo stile di oggetti presumibilmente artistici, ma che in realtà sono di cattivo gusto, in quanto troppo sentimentali, banali e artificiosi, oppure di basso valore culturale, commerciali e con accostamenti gratuitamente eccentrici ed eccessivamente naïf."
Ad esempio, Dorfles nel suo saggio individua il Kitsch nella trasposizione decorativa ed economica di opere famose, come le torri Eiffel macinapepe o la Robiolina Gioconda, e naturalmente le repliche di statue greche e romane per adornare villoni e villini, fino ai famigerati nani da giardino.

Il termine può comunque essere utilizzato per descrivere un oggetto artistico che presenta una qualsiasi mancanza: infatti, si sottolinea spesso l’assenza, negli oggetti chiamati Kitsch, del senso di creatività ed originalità propri dell'autentica arte.
Molti teorici e scrittori, oltre a Dorfles, lo hanno raccontato e hanno provato a definirne i connotati: da Umberto Eco allo scrittore Milan Kundera, autore del famoso romanzo “L'insostenibile leggerezza dell'essere”, che ne ha fatto una metafora per raccontare la situazione politica ed esistenziale vissuta durante il regime sovietico:
«Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria. …un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» - Milan Kundera
C’è da dire che la divisione netta che Umberto Eco faceva tra “cultura alta” e “Kitsch”, inteso come cultura di massa, si è appianato negli anni. Ormai tutta la società utilizza a piene mani questo linguaggio ed è difficile pensare che sia espressione solo di una “bassa” cultura estetica. Dorfles risolve ogni dubbio:
«Come sempre, sono l’intenzione e la consapevolezza, sia rispetto all’utilizzo delle tecniche sia nei riguardi dei contenuti, che trasformano un oggetto, una forma, ma anche un comportamento, in un’opera, in un linguaggio che sentiamo veri e autentici. Se non esiste la dimensione culturale, ogni forma d’arte è destinata a cadere nella trappola di un Kitsch più o meno consapevole. […] È necessario conoscerlo, anche frequentarlo e, perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cattivo gusto è sempre in agguato».
Ha senso parlare di Kitsch nel 2024?
Io penso di sì, il Kitsch che non sa di essere Kitsch esiste ancora, e nessuno di noi ne è mai veramente immune. Chi non si lascia rapire ogni tanto da qualche decorazione di Natale un po’ troppo eccessiva o da qualche bomboniera un po’ troppo smielata? E poi dobbiamo riconoscere che molti oggetti presenti nelle nostre case, che razionalmente sappiamo essere brutti, hanno per noi un valore sentimentale, ci legano a un ricordo o a una persona, e la valutazione estetica o etica passa decisamente in secondo piano.
Dorfles sul Kitsch della nascita, dei matrimoni e più in generale delle festività (festa della mamma, San Valentino, Natale, Halloween e via discorrendo) si esprime senza pietà:
“Sembra quasi incredibile che gli uomini abbiano saputo ammantare così densamente di cattivo gusto i loro rapporti più “sacri” riducendoli il più delle volte a dei rituali aberranti”
Questa frase mi ha fatto molto ridere, ma anche riflettere.
Tuttavia, sono passati molti anni dal saggio di Dorfles, la cui ultima riedizione ad opera dell’autore risale al 1990, e non dobbiamo dimenticarci che internet e i social hanno influenzato moltissimo il modo di fare arte, l’arte stessa e il linguaggio estetico contemporaneo, a tal punto che il Kitsch non solo è diventato un genere, uno stile, ma è stato indagato, esploso, svuotato, portato all’estremo, osservato da talmente tante angolazioni che ormai lo si potrebbe considerare superato. Magazine come Toilet Paper, fondato dall’artista Maurizio Cattelan, ad esempio, basano su questa estetica la propria immagine, e oggi sviluppano linee di design e arredamento per marchi come Seletti.
Per non parlare poi della contro-tendenza delle generazioni più giovani, presente ormai da diversi anni su Instagram, di immortalare “il brutto”, il sincero, il reale, andando in contrasto con l’ideale di bellezza irrealistico che imperava inizialmente su questo social. Pagine come @zerosbattincucina e @libri.brutti raccontano senza troppi fronzoli la “bruttezza” per nulla patinata e molto reale della nostra quotidianità.
Kitsch, Camp e Trash
Dal termine Kitsch si sono diramate altre due “sfumature”, che hanno altre accezioni e caratteristiche ma che partono dallo stesso presupposto: il Camp e il Trash. Nel saggio “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash” lo scrittore Tommaso Labranca inquadra il Trash in 5 pilastri: Libertà di espressione, Contaminazione, Incongruità, Massimalismo, Emulazione fallita, ed elabora così la “formula matematica del Trash”:
INTENZIONE – RISULTATO RAGGIUNTO = TRASH
“Quando si è trash non si sa mai di esserlo. Non appena, però, nasce un primo fugace bagliore di rivelazione, quando ci si comincia a porre domande sulla struttura degli eventi estetici che costellano la nostra vita, ecco che si abbandona all’istante la Rutilante Galassia del trash.”
“Una volta usciti dal tunnel del trash si può entrare a far parte di uno dei due possibili universi paralleli eppure divergenti: quello del camp e quello del kitsch. La destinazione finale dipende dall’atteggiamento che si assume una volta venuti a conoscenza della propria trashitudine. Se la si accetta si diventa camp, si espone senza vergogna il trash, stando attenti a sottolineare che «io, però, non sono veramente così!». Se si fa di tutto per rifiutarla si diventa kitsch, si nasconde il trash e quando ne traspare anche un lembo si è pronti a precisare che «io non sono assolutamente così!». - Tommaso Labranca
Il Camp, infatti, per dargli una definizione più inquadrata, è l'uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch nell'arte, nell'abbigliamento e negli atteggiamenti. Potremmo definire il camp un “meta-Kitsch”? cioè un Kitsch volutamente Kitsch, che utilizza con consapevolezza quel linguaggio per gioco o per indagine artistica e sociale? Ci aiuta in questo quesito niente meno che Jeff Koons, l’artista vivente più quotato al mondo, che più di tutti ha fatto del camp e del Kitsch il suo linguaggio estetico.
Jeff Koons e il Kitsch di super lusso
Non è in questa sede che mi dilungherò su Jeff Koons, è già un numero bello denso e parlando di questo artista si aprono mille discorsi e ragionamenti sul mercato dell’arte oggi - vi basti sapere che la sua opera "Rabbit" è stata venduta all'asta da Christie's a New York nel 2019 per la cifra record di 91,1 milioni di dollari, ed è ancora oggi l'opera d'arte più costosa mai venduta di un artista vivente- .
Di questo artista, piuttosto, ciò che volevo evidenziare brevemente è “l’elevazione” del kitsch e il senso di straniamento che questo provoca: Koons, attingendo a piene mani dalla Pop Art di Andy Warhol e ancora prima dal ready-made di Duchamp (di cui parlavamo nella newsletter sulle installazioni) mette sul piedistallo i prodotti della cultura di massa, densi di memorie e desideri personali e collettivi, e li trasforma intenzionalmente in oggetti di lusso e venerazione.
Nonostante il suo successo commerciale, l'arte di Koons è spesso oggetto di critiche. Alcuni critici lo accusano di creare opere che mancano di profondità e che sfruttano semplicemente la cultura pop e il consumismo per scopi commerciali. Tuttavia, Koons difende il suo lavoro sostenendo che il suo obiettivo è celebrare la bellezza e la gioia, e che le sue opere sono un riflesso sincero della società contemporanea.
Se volete una mia opinione, sono d’accordo con i critici.



Sono proprio curiosa di sapere il vostro parere, secondo voi quello di Koons è un Kitsch che “fa il giro”, cioè che riesce ad essere camp, auto-ironico e divertente al punto da essere arte, oppure rimane orribilmente Kitsch?
Martin Parr, fotografo ironico e tagliente
Visto che lo scopo di questa newsletter non è solo interrogarsi su cosa è arte e cosa no e aprire occasioni di dialogo e di dibattito, ma soprattutto condividere progetti e artisti di valore - e finora di cose brutte ne abbiamo viste parecchie - vorrei cambiare la lente attraverso cui stiamo osservando questo fenomeno, e passare a quella dell’obiettivo di Martin Parr, fotografo inglese famoso in tutto il mondo per la sua capacità di documentare la società contemporanea, nelle sue “norme” e nelle stranezze della vita di tutti i giorni, con un occhio ironico, irriverente e attento. Parr è uno dei fotografi contemporanei più acclamati e influenti nella cultura visiva attuale. Se volete approfondire la sua opera, fino al 30 giugno è possibile visitare la sua mostra al Mudec di Milano Martin Parr - Short & Sweet.
“Con la fotografia mi piace creare una finzione dalla realtà. Cerco di farlo prendendo i pregiudizi naturali della società e dando loro una svolta”. - Martin Parr
I suoi scatti, caratterizzati da un uso molto contrastato e brillante del colore, raccontano il gusto e le abitudini della classe media inglese a partire dagli anni Ottanta. Con ironia e sottile umorismo, Parr indaga il kitsch della provincia inglese, l'arredamento, il tempo libero, i rituali sociali. Cattura tic e nevrosi con un acume quasi sociologico.
La fotografia di Parr profuma di zucchero filato e mele candite, di burro fuso sui popcorn, di pantofole di peluche e cibo preconfezionato, di unghie colorate e capelli cotonati, di olio solare, di moquette, carta da parati e piante finte da sala d'attesa.
Parr ci rivela che il cattivo gusto e gli atteggiamenti grotteschi avranno sempre una rassicurante e necessaria familiarità. Il suo è un ritratto pop della fiera della vanità, del nostro piccolo teatro dell'assurdo.
Fotografi emergenti: Lucia Buricelli
Piccola postilla prima di salutarci: parlando di Martin Parr mi è venuto in mente il lavoro di Lucia Buricelli, una fotografa veneziana che attualmente vive e lavora a New York. Ha lavorato con testate come The New Yorker, New York Times e NBC, in questi mesi sta documentando la campagna elettorale di Trump negli Stati Uniti. Sul suo profilo instagram potete vedere i suoi ultimi scatti.
Quindi, che ne dite? Non è proprio l’intelligenza e l’ironia a fare la differenza nell’utilizzo del Kitsch nell’arte? Come diceva Dorfles all’inizio di questo lungo trattato, a fare tutta la differenza, alla fine, sono l’intenzione e la consapevolezza, che danno tridimensionalità, profondità ad un prodotto artistico, sia esso fotografico, scultoreo, pittorico etc. Implicitamente, questi “confini” suggeriti da Dorfles, sono degli strumenti utilissimi da utilizzare nella vita di tutti i giorni, per capire cosa è arte e cosa no, cosa merita la nostra attenzione, il nostro tempo e i nostri soldi, e cosa ne merita un po’ meno.
Puntualizzo: ben vengano le collezioni di palle di cristallo con la neve, i biglietti di auguri glitterati, i documenti scritti in Comic Sans se questi vi rendono felici (io stessa a casa sono piena di queste amenità), basta non chiamarli arte, tutto qua ;)
Spero che questa dissertazione possa essere stata di spunto per qualche riflessione su cosa è l’arte e su cosa è il bello, e che vi abbia regalato anche qualche sorriso.
A lunedì, non il prossimo, quello dopo,
Elena