Quanto (non) sappiamo dell'arte americana
La famiglia Wyeth: tre generazioni di artisti da scoprire
Cari lettrici e lettori,
Bentornati su Mettiladap.arte e buon inizio settimana!
Vi scrivo dopo qualche settimana di assenza, rientrata dopo un viaggio negli Stati Uniti e diverse giornate di assestamento tra vita, lavoro e jet lag.
Come vi anticipavo nello scorso numero, ho iniziato un nuovo lavoro - da gennaio sarà ufficiale e potrò raccontarvi tutto 😊 - e riuscire a mantenere la cadenza di due numeri al mese è diventato complicato, soprattutto perchè, se mi avete seguita fin qui lo saprete, ogni newsletter è densa contenuto, e quindi necessita di tempo e ricerca. Quindi ci sentiremo un po’ di meno, ma di certo non smetterò di spedirvi “pacchetti” di cose belle ricchi e approfonditi al punto giusto, con tutta la cura di sempre.
Info di servizio: giovedì scorso c’è stata la prima visita guidata alla mostra di OBEY alla Fabbrica del Vapore (per chi si fosse perso il racconto della mia esperienza con questo artista ne parlavo qui). Giovedì 24 ottobre alle 19.00 ci sarà la seconda visita - e sarà l’ultima occasione perchè la mostra finisce il 27 ottobre -. Ho ancora tre posti disponibili, per partecipare scrivetemi una mail a questo indirizzo: elenadomenichini.design@gmail.com . Grazie!
I want to be a part of it - New York, New York
Questo è il terzo anno consecutivo che Addvent, il collettivo di design con cui collaboro da remoto ormai da 4 anni, in autunno mi invita per qualche settimana nella sede americana di Lititz, un piccolo paese nei dintorni di Lancaster, in Pennsylvania, per fare team building, lavorare insieme ai progetti e contribuire all’organizzazione de L’Italia Festival, un festival locale di cultura italiana che è diventato negli anni un evento imperdibile e molto frequentato.
Di solito riesco ad attaccarci qualche giorno di visita a New York, questa volta purtroppo ero molto di fretta, e ho avuto giusto qualche ora per un giretto tutta bardata - trolley, zaino e marsupio - per guardarmi in giro e fare qualche foto, tra il volo a JFK e il treno direzione Lancaster. E’ stata un’esperienza estenuante ma ne è valsa la pena (qui sotto qualche scatto):
↑ L’anno scorso ho beccato questi due musicisti in metropolitana e mi sono perdutamente innamorata della loro versione di “What You Won't Do For Love” di Bobby Caldwell
Ogni anno cerco di catturare il più possibile di questa città nel poco tempo a disposizione, e, pezzettino dopo pezzettino, la sto scoprendo nelle sue molto varie sfaccettature. New York è una città un po’ sconvolgente, non ho termini migliori di questo per descriverla. Umana e disumana. Una bellezza che stordisce, una grandiosità che acceca, un libro aperto scritto fitto-fitto in cui migliaia di storie si accumulano e si intrecciano viaggiando contemporaneamente su centinaia di piani.
Se un alieno avesse un solo giorno per farsi un’idea della specie umana, gli consiglierei New York, ricettacolo del mondo allo stato attuale delle cose, perfetta sintesi delle grandi contraddizioni della società.
Ho la sensazione che chi ci abiti sia una specie di super-uomo o super-donna, abituati a muoversi in un ambiente disegnato per gli umani del futuro, ma senza robot e navicelle, più con le sneakers, i bicchieroni di caffè e i topi che attraversano i binari.
Ho in mente un preciso disegno di Harvey Wiley Corbett che rappresenta la fantastica Città del Futuro (1910):
Insomma, di solito arrivo a New York con l’entusiasmo di Frank Sinatra:
E poi me ne torno a casa molto ispirata e con una visione più international e consapevole, ma anche con una certa nostalgia di Milano, che in confronto sembra un piccolo paesino abitato da gente molto per bene e con una metropolitana pulitissima. Di solito il mio ritorno a casa post-America suona sofisticato, tipo così:
Da New York alle campagne degli Amish
Da New York in sole tre ore di treno e 15 minuti di Uber ci si ritrova catapultati indietro di un paio di secoli, in campagne bucoliche costellate da casette e fienili color verde acqua, panni stesi al sole e carretti neri trainati dai cavalli.
L’area intorno alla città di Lancaster - città piuttosto antica che nel 1777 è stata addirittura capitale d’America per un solo giorno - ospita una delle più grandi comunità Amish e Mennonite d’America, e, passeggiando per i marciapiedi di Lititz o percorrendo la statale in macchina, magari su un pickup con musica country in sottofondo, si ha la possibilità di vedere come passato e presente si amalgamino perfettamente. Al mercato contadino non è raro che tra un chiosco di zucche e uno di t-shirt per supporter di Trump, ci sia la bancarella di frutta e verdura di una famiglia Amish - il papà con barba lunga, bretelle e cappello di paglia, e mamma e figlia con tunica nera e capelli raccolti in una sorta di cuffia bianca.
Ma non credete che gli Amish vendano solo ortaggi, quest’anno abbiamo provato le loro patatine ed erano c-l-a-m-o-r-o-s-e. Provare per credere!
Gli Amish non sono gli unici abitanti di questa zona, chiaramente: la maggior parte degli abitanti di Lititz - il paesino dove sono stata in viaggio di lavoro - sono cittadini americani di origine tedesca, i cosiddetti Pennsylvania Dutch (Dutch in questo caso sta per “tedeschi” e non “olandesi” come si potrebbe pensare), con una tradizione culinaria e culturale ben precisa, che ha qualcosa di tedesco ma anche di mescolato ad altre cose, e quindi molto americano. Lititz vanta per esempio l’invenzione degli hard pretzel, ovvero i pretzel secchi che in Italia troviamo come salatini alle feste. La storia risale al 1861: un panettiere di Lititz si dimenticò dei pretzel nel forno e scoprì che anche croccanti non erano affatto male. Ora quella panetteria ospita un museo dove si può preparare il proprio pretzel e ricevere un attestato di “official pretzel twister”.
Ah, questi americani.
Ritrovare un po’ di Italia in Pennsylvania
Ai Pennsylvania Dutch si mescolano cittadini con altre discendenze, e tra questi come non menzionare la nutritissima comunità degli italo-americani (più un gruppo di italiani-italiani), che ogni anno ci dà un calorosissimo benvenuto, come se io e la mia collega avessimo portato con noi in valigia anche un pezzettino di quella terra in cui sognano presto di tornare o di visitare per la prima volta.
Non c’è miglior momento e luogo per essere italiani che a Lititz a settembre, durante L’Italia Festival. In generale essere italiani - italiani italiani - in America è molto cool.
Ma durante il festival succede qualcosa di magico: ci si ritrova a condividere racconti, esperienze, punti di vista, simboli e tradizioni legati al proprio paese che spesso si dà per scontati, e si riscopre, attraverso il confronto con tante persone che vivono in un altro continente, un’Italia diversa, vista dagli occhi di chi ci è stato in viaggio, di chi ne è innamorato, e di chi la conosce solo attraverso i racconti e le tradizioni dei propri nonni. Gli stereotipi non mancano, ma complice la mia playlist-compendio dei maggiori successi danzerecci di musica italiana degli ultimi decenni sparata a migliaia di decibel (quest’anno ho fatto pure un djset), vari show-cooking con piatti di diverse regioni italiane, un car-show con auto di un certo livello, banchetti per giocare a carte e l’organizzazione a cura di italiani expat, la fiera si è rivelata essere discretamente autentica.

L’arte americana che non ti aspetti
Perchè vi sto raccontando delle mie peregrinazioni in Pennsylvania?
Perchè grazie a questi viaggi in zone vicine ma culturalmente differenti degli Stati Uniti ho imparato a conoscere un’America inaspettata, che non si studia sui libri e non si racconta in tv, ma che si scopre solo facendone esperienza diretta.
E perchè, allo stesso modo, ho scoperto dell’arte che non conoscevo.
Con arte americana cosa vi viene in mente?
A me, prima di tutto, molto colore.
Di istinto penso a Pollock e all’Espressionismo Astratto, a Rothko e agli artisti europei emigrati negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Penso a Andy Warhol e alla Pop-Art, penso a Keith Haring e a Basquiat, gli apripista della Street Art, e poi penso ai graffiti degli anni ‘80 e al mio caro Obey.
Per dirla brutalmente, gli Stati Uniti per come li conosciamo oggi sono una fucina incandescente, che, a ritmo incessante, ingurgita tutto ciò che trova e risputa fuori sotto forma di nuovi prodotti artistici e culturali. Faro della cultura occidentale, catalizzatore di tendenze.
Eppure non è sempre stato così.
Gli Stati Uniti esistono da molto prima che l’Europa li reputasse culturalmente rilevanti, e, di pari passo, anche la loro arte. Che la nostra conoscenza dell’arte americana prima della seconda metà del Novecento sia così sfocata è emblematico.
Il Brandywine Museum of Art, Philadelphia
Varcando la soglia del Brandywine Museum of Art, un piccolo e ben curato museo di arte locale che sorge sulle rive del Brandywine Creek, non lontano da Philadelphia, mi sono imbattuta in tre artisti che mi hanno colpita, e che vorrei presentarvi qui.

Il Brandywine Museum è conosciuto anche come Wyeth Museum perchè ospita la più vasta collezione di opere della famiglia Wyeth: il nonno N.C., famoso pittore e illustratore di opere letterarie per l’infanzia, il papà Andrew, pittore realista di fama internazionale, e il figlio Jamie, artista contemporaneo che ama sperimentare. Tre stili completamente diversi tra di loro, ma che hanno preso ispirazione l’uno dall’altro e in cui è possibile riconoscere somiglianze e richiami.
E’ molto difficile riuscire a trasmettere in una newsletter la potenza evocativa dei loro dipinti, visti tutti insieme su un piccolo schermo. Dal vivo sono tutta un’altra cosa. Tuttavia, vi invito a soffermarvi sulle immagini e a notarne i dettagli: la scelta dei soggetti, le inquadrature, l’influenza della fotografia e del cinema, il fascino per le fiabe, le storie e per il gioco che il nonno N.C. ha tramandato alle generazioni successive.
Poi mi direte qual è il vostro Wyeth preferito.
Il nonno: Newell Convers Wyeth
Se da piccoli avevate uno dei suoi libri illustrati, le sue opere non vi saranno nuove: L'isola del tesoro (1911), Robin Hood (1917), L'ultimo dei Mohicani (1919), Robinson Crusoe (1920) sono solo alcuni dei classici che N.C. illustrò per la Scribner’s, storica casa editrice di New York.
N.C. realizzò più di 3000 dipinti e illustrazioni per 112 libri. Con L'isola del tesoro, uno dei suoi capolavori, finanziò il suo studio, che costruì accanto alla sua casa sul Brandywine Creek, e il suo lavoro diede una certa libertà finanziaria alla famiglia, permettendo così ai figli di dedicarsi alle proprie inclinazioni artistiche e scientifiche.
Illustrazioni per L’ Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson (1911)


Illustrazioni per L’Isola Misteriosa di Jules Verne (1918)
Illustrazioni per L’ultimo dei Mohicani di J. F. Cooper (1919)


Wyeth disegnò anche poster, calendari e pubblicità per grandi azione come Lucky Strike, Cream of Wheat e Coca-Cola. Le sue illustrazioni erano scientemente disegnate per una facile e rapida comprensione. Nonostante la pittura ad olio fosse il suo medium preferito, N.C. credeva nella profonda differenza tra pittura e illustrazione: “La pittura e l'illustrazione non possono essere mescolate: non è possibile fondere l'una con l'altra”. N.C. Wyeth era un incredibile illustratore, ma si rese ben presto conto che la sua produzione era troppo commerciale per essere considerata “arte”: fu il figlio Andrew a realizzare il sogno del padre, diventando uno dei più importanti pittori americani della seconda metà del XX secolo.
Illustrazioni Western
Illustrazioni sui Nativi Americani
Paesaggi americani
Il papà: Andrew Wyeth
A causa della salute cagionevole, Andrew crebbe in casa sotto la guida del papà N.C. Ebbe così modo di passare molto tempo nella natura e di coltivare le sue passioni, come la lettura, la musica, il cinema e, ovviamente, la pittura.
Andrew imparò a disegnare ancora prima di saper leggere. Prima studiò le figure e l’acquerello, poi scoprì la tempera all'uovo, uno dei metodi più antichi ed efficaci per la preparazione dei colori.
Il suo stile era diverso da quello del padre: più scarno, più “secco” e con una gamma di colori più limitata. I soggetti preferiti da Andrew erano la sua terra e le persone che la abitavano, sia nella sua città natale di Chadds Ford, in Pennsylvania, sia nella sua casa estiva di Cushing, nel Maine.
Classificato principalmente come pittore realista regionalista - il regionalismo è un movimento artistico americano degli anni ‘30 che predilige il tema figurativo e locale -, in un articolo della rivista Life del 1965, Wyeth affermò che, sebbene venisse considerato un realista, egli si considerava un astrattista:
“Le mie persone, i miei oggetti respirano in modo diverso: c'è un altro nucleo, un'eccitazione che è decisamente astratta. Mio Dio, quando cominci davvero a scrutare qualcosa, un semplice oggetto, e ti rendi conto del significato profondo di quella cosa - se provi un'emozione al riguardo, non c'è fine" - Andrew Wyeth
Le sue passeggiate in solitaria erano la principale fonte di ispirazione per i suoi paesaggi. Sviluppò una straordinaria intimità con la terra e il mare e si sforzò di raggiungere una comprensione spirituale basata sulla storia e sulle emozioni inespresse.
Nell'ottobre 1945 N.C. morì in un incidente d’auto. Andrew definì la morte del padre come un evento spartiacque nella sua carriera artistica: le sue opere cominciarono ad assumere un tono malinconico. Da lì in poi l'arte di Wyeth si consolidò nel suo stile maturo e duraturo, che lo rese uno dei più noti artisti americani del XX secolo, talvolta indicato con l'appellativo di "pittore della gente" a causa della sua popolarità tra il pubblico americano.
L’indiscusso capolavoro Christina’s World, è ambientato in una cittadina del Maine, dove l’artista risiedeva d’estate. Il quadro è ispirato alla figura di Christina Olson, una vicina di casa del pittore rimasta paralizzata alle gambe sin dall’infanzia. Nel dipinto la donna è ritratta distesa tra i campi, senza sedia a rotelle, protesa verso la sua abitazione, vicina ma irraggiungibile. Christina viveva praticamente chiusa in casa: l’artista la immaginò lontana dal suo rifugio, che tanto la rassicurava: sola, vulnerabile, smarrita.
Il figlio: Jamie Wyeth
Jamie, secondogenito di Andrew, dimostrò di possedere le stesse incredibili capacità di disegno e, come il padre, ricevette lezioni a casa, dividendosi tra la fattoria della famiglia e lo studio del nonno, dove prese lezioni dalla zia Carolyn, anche lei artista.
Grazie alla zia, Jamie sviluppò un interesse per la pittura a olio, la tecnica preferita del nonno, un mezzo che gli piaceva a livello sensoriale: l'aspetto, l'odore e il tatto.
“Potrei mangiarlo. La tempera non è mai sembrata particolarmente commestibile. Bisogna amare un medium per lavorarci. Io amo la sensazione e l'odore dell'olio". - Jamie Wyeth
Ciò che ispirò maggiormente Jamie non fu solo il soggetto o la tecnica del nonno, ma il suo “senso di totale coinvolgimento personale e di comprensione intuitiva dei suoi soggetti”. Jamie Wyeth adottò una tavolozza di colori più ampia rispetto a quella del padre, più vicina alle scelte cromatiche della zia e del nonno.
Come sua zia Carolyn, Jamie ama dipingere animali domestici, come polli, cani, maiali e cavalli. Presta particolare attenzione alla consistenza della pelliccia o delle piume dell'animale, alla lucentezza dell'occhio, all'erba intorno alle zampe. Per creare gli effetti desiderati, utilizza pennellate per la consistenza e vernici per la lucentezza.
Pur rimanendo ancorato alla tradizione artistica e ai soggetti della famiglia, i suoi viaggi a New York e in Europa e le sue esperienze variegate nel campo artistico resero Jamie un artista più completo.
Grazie ai consigli del padre, Jamie sviluppò rapidamente una tecnica uno stile riconoscibili. Nel 1963, all'età di 17 anni, dipinse il Ritratto di Shorty, un ritratto minuzioso e di grande effetto di un operaio delle ferrovie locali, che visse come un eremita per vent’anni.
Negli anni Sessanta Jamie acquistò la proprietà di Lobster Cove sull'isola di Monhegan, nel Maine, che in precedenza era stata di Rockwell Kent, il famoso pittore americano di paesaggi selvaggi modernisti tanto ammirato dal nonno.
Oggi vive tra la casa di Chadds Ford e la proprietà nel Maine. Qui ereditò anche il faro di Tenants Harbor, luogo in cui realizza la maggior parte dei suoi dipinti, il posto perfetto per trovare il silenzio e la solitudine che anche il papà Andrew amava.
Eccoci giunti alla fine di questa lunga newsletter così densa di contenuti.
La scrittura, la selezione delle foto e delle opere e la “messa a terra” di tutto quello che volevo raccontarvi ha necessitato di moltissime ore, tra nottate e domeniche al computer. Rielaborare ciò che si è vissuto e ripresentarlo nel migliore dei modi è un lavoro complesso ma necessario. Spero ne sia valsa la pena e che abbiate trovato degli spunti interessanti!
Conoscevate già gli artisti Wyeth? Quali opere vi hanno colpito di più? Avete scoperto qualcosa di nuovo?
Grazie come sempre per seguirmi qui su Mettiladap.arte.
Alla prossima e buona settimana,
Elena
Io ho apprezzato molto le illustrazioni del nonno, in particolare la copertina di Verne, il cieco, la prima dell'ultimo dei Mohicani, Cassidy. Mi hanno ricordato i libri per ragazzi che leggevamo. Il genere western era sempre il preferito. E poi il paesaggio della Pensilvania è bellissimo.
Non conoscevo la storia dell’intera famiglia Wyeth. Grazie del nell’articolo. Mi piacciono moltissimo gli acquerelli di Andrew. Adoro Wind from the sea.. Mi piace la malinconia e la leggerezza. Sembra soffi sempre il vento…